Il Premio Sila ’49, che giunge quest’anno alla sua VII edizione, si svolgerà a Cosenza nelle sale di Palazzo Arnone dal 29 novembre all’1 dicembre.
La Giuria ha annunciato oggi la cinquina dei titoli finalisti: Roberto Alajmo L’estate del ’78 (Sellerio), Marco Balzano Resto qui (Einaudi), Paolo Giordano Divorare il cielo (Einaudi), Lia Levi Questa sera è già domani (Edizioni E/O), Francesca Melandri Sangue giusto (Rizzoli).
Cinque romanzi che indagano le ferite personali e quelle della collettività, opere necessarie e intime concepite con uno sguardo critico e una complessità dei linguaggi che caratterizzano da sempre il Premio Sila ’49, attento a promuovere il valore della letteratura di impegno civile.
I vincitori della sezione Letteratura e i vincitori della sezione Economia e Società dell’edizione 2018 saranno proclamati entro metà novembre. La cerimonia di premiazione si svolgerà a Cosenza, a Palazzo Arnone, sabato 1 dicembre alle ore 18.00.
Nel corso della conferenza stampa di presentazione della Cinquina dei libri finalisti del Premio Sila, sono stati svelati dal presidente della Fondazione Premio Sila, Enzo Paolini, una serie di novità inerenti la VII edizione del premio: quest’anno sarà avviata una partnership con l’istituto Treccani dopo che, a maggio, si è svolta a Cosenza la prima iniziativa con la presenza del presidente Treccani, Massimo Bray in collaborazione con la Fondazione Premio Sila.
Un’altra novità di questa edizione del Premio, è il finanziamento di 25mila euro ottenuto dalla Fondazione Premio Sila grazie alla partecipazione a un bando regionale per il finanziamento delle iniziative culturali. Il Presidente Paolini ha comunicato di averne discusso con il sindaco della città e di avere concordato che l’impiego della somma contribuirà al recupero di piazza dei Follari, un anfiteatro naturale situato proprio sotto la sede della Fondazione.
Il Premio speciale alla carriera, conferito nel 2017 al giurista Gustavo Zagrebelsky, sarà quest’anno attribuito a Ferdinando Scianna, che terrà una Lectio Magistralis dal titolo “Viaggio, racconto, memoria”. Nato a Bagheria nel 1943, Ferdinando Scianna è uno dei più grandi maestri della fotografia a livello internazionale, è il primo fotografo italiano che dal 1982 fa parte dell’agenzia fotografica internazionale Magnum Photos.
L’opera per il manifesto di questa edizione del Premio, che negli anni passati è stata realizzata da molti artisti fra cui Mimmo Paladino, vede quest’anno la firma dell’artista milanese Massimo Kaufmann. Attivo dalla fine degli anni ’80 in quella generazione di artisti che si impone sulla scena italiana dopo le esperienze dell’Arte Povera e della Transavanguardia, nell’ultimo decennio il suo lavoro si concentra su una rilettura astratta del paesaggio urbano e naturale.
PREMIO ALLA CARRIERA 2018
FERDINANDO SCIANNA
Ferdinando Scianna è nato a Bagheria, in Sicilia, nel 1943. Proprio nella sua città inizia a dedicarsi alla fotografia ancora giovanissimo, agli inizi degli anni Sessanta, raccontando per immagini la cultura e le tradizioni della sua terra d’origine. Decide molto presto di diventare fotografo, sconvolgendo i progetti dei propri genitori che lo volevano avvocato o dottore. Già i primi ritratti delle persone di Bagheria, che Scianna ritrae con tono partecipe e curioso, risultano carichi d’intensità. Nel 1961 si iscrive a Lettere e Filosofia all’Università di Palermo, e la sua passione per la fotografia inizia a strutturarsi. Conosce il grande critico Cesare Brandi e Enzo Sellerio, a cui mostra le proprio foto, e con cui inizia ad esplorare nuove possibilità visive ed intellettuali. Sono anche gli anni in cui si forma una coscienza politica determinante per l’evoluzione della sua fotografia, così come il vincolo con la propria terra d’origine e le tradizioni siciliane. Circa due anni dopo fa un incontro determinante per la sua vita professionale e personale: entra in contatto con Leonardo Sciascia, lo scrittore con il quale a soli 21 anni pubblica il saggio Feste Religiose in Sicilia, libro che ottiene il prestigioso Premio Nadar. Sull’onda del successo del libro, Scianna si trasferisce a Milano, dove lavora per l’Europeo come fotoreporter, inviato speciale e corrispondente da Parigi, dove vive per 10 anni. A Parigi inizia anche a dedicarsi con successo alla scrittura. Collabora con varie testate giornalistiche, fra cui Le Monde. “Mi ritrovavo più a scrivere che a fotografare, ma sapevo di essere un fotografo che scrive”, racconta Scianna. Proprio nella capitale francese, il suo lavoro viene particolarmente apprezzato da Henry Cartier Bresson, che lo inviterà ad essere membro della Magnum nel 1982. Accettata la candidatura decide di tornare a Milano, dove lavora per vari giornali, e realizza reportage sociali. Inizia anche a fotografare per due giovani designer emergenti, Dolce e Gabbana. Un incontro casuale e non preparato, che darà vita a una delle collaborazioni più riuscite nella fotografia di moda. Scianna riesce a mescolare magistralmente i registri visivi del mondo della moda con l’esperienza del fotoreporter, creando un risultato originale che spezza la monotonia patinata della fotografia di moda. É un successo che lo porterà a collaborare con prestigiose riviste internazionali ed a realizzare altri servizi di moda in cui affianca con maestria artificio e autenticità.
Questa improvvisa e inaspettata svolta, apre il mondo fotografico di Scianna a nuove esperienze, parallele a quelle più tradizionali del fotogiornalismo: pubblicità e fotografie commerciali, senza mai abbandonare il reportage sociale, i ritratti e il giornalismo.
I CINQUE FINALISTI 2018
Roberto Alajmo, L’estate del ’78 (Sellerio)
Un pomeriggio d’estate Roberto Alajmo incontra la madre in una strada di Mondello. Non può immaginarlo, ma quello è un addio. «Cos’abbia fatto lei, nei tre mesi successivi, ancora oggi non lo so. È oggetto della presente indagine».
Prendere per mano i lettori, invitarli in casa, guardare assieme le foto dell’infanzia, raccontare la parte più inconfessabile di sé e della propria famiglia. Roberto Alajmo, nella sua opera più necessaria e personale, ha trasformato un materiale intimo e doloroso nel romanzo di una vita.
Luglio 1978: lo scrittore è uno studente in attesa degli orali dell’esame di maturità, studia con i compagni a Mondello, vicino Palermo, e a fine giornata esce insieme a loro per riposarsi, rifiatare, mangiare un gelato. Una passeggiata di trenta metri e lì, seduta sul marciapiede, trova la madre. Lei lo guarda riparandosi dal sole con la mano. «Mamma, che ci fai qui?». È l’ultimo incontro tra Elena e suo figlio Roberto, il momento da cui scaturisce questo libro, l’investigazione familiare di uno scrittore su un evento che ha segnato la sua giovinezza e la sua maturità: l’esistenza intera.
È la storia di un addio di cui il ragazzo non aveva avuto sentore, la ricerca di un senso per il commiato improvviso di una madre dal marito, dai figli, dalla vita stessa. Il ritratto di una donna che voleva afferrare il mondo, e il mondo le scappava dalle dita. Un dramma di disagio domestico come forse se ne consumavano tanti, in quegli anni, nel chiuso segreto degli appartamenti della borghesia italiana. È un racconto di grande originalità letteraria, attraversato da una suspense che a tratti toglie il respiro, da un’emozione attenta a trasformarsi in pensiero e parola, da un umorismo necessario ed elegante. Mai il lettore ha la sensazione di spiare dal buco della serratura il dolore altrui. E questo accade nonostante l’autore accompagni il testo con le foto di una famiglia come le altre, almeno all’apparenza. Alajmo condivide la sua indagine con noi, ci esorta ad appropriarci del suo passato, ad affrontare con lui il mistero del susseguirsi delle generazioni umane. «Statemi a sentire», sembra dirci. E non c’è altro che possiamo fare.
Roberto Alajmo, giornalista e scrittore, dal 2013 dirige il Teatro Biondo di Palermo. Tra i suoi libri: Notizia del disastro (2001), Cuore di madre (2003), Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo (2004), È stato il figlio (2005), da cui è stato tratto nel 2012 l’omonimo film diretto da Daniele Ciprì, Palermo è una cipolla (2005), L’arte di annacarsi (2010).
Marco Balzano, Resto qui (Einaudi)
Quando arriva la guerra o l’inondazione, la gente scappa. La gente, non Trina. Caparbia come il paese di confine in cui è cresciuta, sa opporsi ai fascisti che le impediscono di fare la maestra. Non ha paura di fuggire sulle montagne col marito disertore. E quando le acque della diga stanno per sommergere i campi e le case, si difende con ciò che nessuno le potrà mai togliere: le parole.
«Se per te questo posto ha un significato, se le strade e le montagne ti appartengono, non devi aver paura di restare».
L’acqua ha sommerso ogni cosa: solo la punta del campanile emerge dal lago. Sul fondale si trovano i resti del paese di Curon. Siamo in Sudtirolo, terra di confini e di lacerazioni: un posto in cui nemmeno la lingua materna è qualcosa che ti appartiene fino in fondo. Quando Mussolini mette al bando il tedesco e perfino i nomi sulle lapidi vengono cambiati, allora, per non perdere la propria identità, non resta che provare a raccontare. Trina è una giovane madre che alla ferita della collettività somma la propria: invoca di continuo il nome della figlia, scomparsa senza lasciare traccia. Da allora non ha mai smesso di aspettarla, di scriverle, nella speranza che le parole gliela possano restituire. Finché la guerra viene a bussare alla porta di casa, e Trina segue il marito disertore sulle montagne, dove entrambi imparano a convivere con la morte. Poi il lungo dopoguerra, che non porta nessuna pace. E così, mentre il lettore segue la storia di questa famiglia e vorrebbe tendere la mano a Trina, all’improvviso si ritrova precipitato a osservare, un giorno dopo l’altro, la costruzione della diga che inonderà le case e le strade, i dolori e le illusioni, la ribellione e la solitudine. Una storia civile e attualissima, che cattura fin dalla prima pagina. Il nuovo grande romanzo del vincitore del Premio Campiello 2015, finalista del Premio Strega 2018, già venduto in diversi Paesi prima della pubblicazione.
Marco Balzano è nato a Milano nel 1978, dove vive e lavora come insegnante. Oltre a raccolte di poesie e saggi ha pubblicato tre romanzi: Il figlio del figlio (Avagliano 2010; Sellerio 2016, Premio Corrado Alvaro Opera prima), Pronti a tutte le partenze (Sellerio 2013, Premio Flaiano) e L’ultimo arrivato (Sellerio 2014, Premio Volponi, Premio Biblioteche di Roma, Premio Fenice Europa e Premio Campiello 2015). Per Einaudi ha pubblicato Resto qui (2018). I suoi libri sono tradotti in diversi Paesi.
Paolo Giordano, Divorare il cielo (Einaudi)
Quei tre ragazzi che si tuffano in piscina, nudi, di nascosto, entrano come un vento nella vita di Teresa. Sono poco più che bambini, hanno corpi e desideri incontrollati e puri, proprio come lei. I prossimi vent’anni li passeranno insieme nella masseria lì accanto, a seminare, raccogliere, distruggere, alla pazza ricerca di un fuoco che li tenga accesi. Al centro di tutto c’è sempre Bern, un magnete che attira gli altri e li spinge oltre il limite, con l’intensità di chi conosce solo passioni assolute: Dio, il sesso, la natura, un figlio.
Le estati a Speziale per Teresa non passano mai. Giornate infinite a guardare la nonna che legge gialli e suo padre, lontano dall’ufficio e dalla moglie, che torna a essere misterioso e vitale come la Puglia in cui è nato. Poi un giorno li vede. Sono «quelli della masseria», molte leggende li accompagnano, vivono in una specie di comune, non vanno a scuola ma sanno moltissime cose. Credono in Dio, nella terra, nella reincarnazione. Tre fratelli ma non di sangue, ciascuno con un padre manchevole, inestricabilmente legati l’uno all’altro, carichi di bramosia per quello che non hanno mai avuto. A poco a poco, per Teresa, quell’angolo di campagna diventa l’unico posto al mondo. Il posto in cui c’è Bern. Il loro è un amore estivo, eppure totale. Il desiderio li guida e li stravolge, il corpo è il veicolo fragile e forte della loro violenta aspirazione al cielo. Perché Bern ha un’inquietudine che Teresa non conosce, un modo tutto suo di appropriarsi delle cose: deve inghiottirle intere. La campagna pugliese è il teatro di questa storia che attraversa vent’anni e quattro vite. I giorni passati insieme a coltivare quella terra rossa, curare gli ulivi, sgusciare montagne di mandorle, un anno dopo l’altro, fino a quando Teresa rimarrà la sola a farlo. Perché il giro delle stagioni è un potente ciclo esistenziale, e la masseria il centro esatto dell’universo.
Paolo Giordano è nato a Torino nel 1982. È autore di quattro romanzi: La solitudine dei numeri primi (Mondadori 2008, Premio Strega e Premio Campiello Opera Prima), Il corpo umano (Mondadori 2012), Il nero e l’argento (Einaudi 2014) e Divorare il cielo (Einaudi 2018). Ha scritto per il teatro (Galois e Fine pena: ora) e collabora con il «Corriere della Sera».
Lia Levi, Questa sera è già domani (Edizioni E/O)
Nel 1938 si riuniscono 32 Paesi per affrontare il problema degli ebrei in fuga da Germania e Austria. Molte belle parole ma in pratica nessuno li vuole. Una sorprendente analogia con il dramma dei rifugiati ai nostri giorni.
Nello stesso anno 1938 vengono promulgate in Italia le infami Leggi Razziali. Come e con quali spinte interiori il singolo uomo reagisce ai colpi nefasti della Storia? Ci sarà qualcuno disposto a ribellarsi di fronte ai tanti spietati sbarramenti? In questo nuovo emozionante romanzo Lia Levi torna ad affrontare con particolare tensione narrativa i temi ancora brucianti di un nostro tragico passato.
Genova. Una famiglia ebraica negli anni delle leggi razziali. Un figlio genio mancato, una madre delusa e rancorosa, un padre saggio ma non abbastanza determinato, un nonno bizzarro, zii incombenti, cugini che scompaiono e riappaiono. Quanto possono incidere i risvolti personali nel momento in cui è la storia a sottoporti i suoi inesorabili dilemmi? È possibile desiderare di restare comunque nella terra dove ci sono le tue radici o è urgente fuggire? Se sì, dove? Esisterà un paese realmente disponibile all’accoglienza? Alla tragedia che muove dall’alto i fili dei diversi destini si vengono a intrecciare i dubbi, le passioni, le debolezze, gli slanci e i tradimenti dell’eterno dispiegarsi della commedia umana.
Una vicenda di disperazione e coraggio realmente accaduta, ma completamente reinventata, che attraverso il filtro delle misteriose pieghe dell’anima ci riporta a un tragico recente passato. Romanzo finalista al Premio Strega 2018, vincitore del Premio Strega Giovani 2018.
Lia Levi, di famiglia piemontese, vive a Roma, dove ha diretto per trent’anni il mensile ebraico Shalom. Per le nostre edizioni ha pubblicato: Una bambina e basta (Premio Elsa Morante Opera Prima), Quasi un’estate, L’albergo della Magnolia (Premio Moravia), Tutti i giorni di tua vita, Il mondo è cominciato da un pezzo, L’amore mio non può, La sposa gentile (Premio Alghero Donna e Premio Via Po), La notte dell’oblio, Il braccialetto (Premio speciale della giuria Rapallo Carige, Premio Adei Wizo) e Questa sera è già domani. Nel 2012 le è stato conferito il Premio Pardès per la Letteratura Ebraica.
Francesca Melandri, Sangue giusto (Rizzoli)
Roma, agosto 2010. In un vecchio palazzo senza ascensore, Ilaria sale con fatica i sei piani che la separano dal suo appartamento. Vorrebbe solo chiudersi in casa, dimenticare il traffico e l’afa, ma ad attenderla in cima trova una sorpresa: un ragazzo con la pelle nera e le gambe lunghe, che le mostra un passaporto. «Mi chiamo Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti» le dice, «e tu sei mia zia.» All’inizio Ilaria pensa che sia uno scherzo. Di Attila Profeti lei ne conosce solo uno: è il soprannome di suo padre Attilio, un uomo che di segreti ne ha avuti sempre tanti, e che ora è troppo vecchio per rivelarli. Shimeta dice di essere il nipote di Attilio e della donna con cui è stato durante l’occupazione italiana in Etiopia. E se fosse la verità? È così che Ilaria comincia a dubitare: quante cose, di suo padre, deve ancora scoprire? Le risposte che cerca sono nel passato di tutti noi: di un’Italia che rimuove i ricordi per non affrontarli, che sopravvive sempre senza turbarsi mai, un Paese alla deriva diventato, suo malgrado, il centro dell’Europa delle grandi migrazioni. Con Sangue giusto Francesca Melandri si conferma un’autrice di rara forza e sensibilità. Il suo sguardo, attento e profondissimo, attraversa il Novecento e le sue contraddizioni per raccontare il cuore della nostra identità.
Francesca Melandri (Roma, 1964) ha lavorato per molti anni come sceneggiatrice, prima di esordire nel 2010 nella narrativa con Eva dorme. Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Più alto del mare, finalista al Premio Campiello e vincitore del Premio Rapallo Carige. I suoi romanzi sono tradotti nelle principali lingue europee.