Arriva anche il momento della Cinquina, in questa edizione “strana”, come strane sono ormai tante cose, del Premio Sila ’49. Dai primi di settembre, il Premio ha continuato a far incontrare autori e lettori con i consueti eventi di presentazione dei libri; in presenza fino a quando si è potuto, poi online. E online è anche questo incontro con alcuni giurati per svelare la cinquina 2020, perché a fermarsi il Premio non ci ha mai pensato. “Non abbiamo voluto interrompere il flusso delle idee, delle suggestioni e dei sentimenti contenuti nei libri: sono le uniche armi che ci consentiranno di superare questo momento drammatico. – dice Enzo Paolini, all’inizio dell’incontro – D’altra parte, i libri servono proprio a questo, a darci strumenti di forza sociale per migliorare il mondo in cui viviamo. Per questo non ci siamo fermati, perché ora più che mai abbiamo bisogno di questo”.
Ringrazia il comitato dei lettori, Gemma Cestari, direttrice del Premio e lo fa con un’attenzione particolare ai più giovani, gli studenti delle scuole superiori di Cosenza: “Grazie ai ragazzi, agli insegnanti e ai dirigenti per aver contribuito a definire questa cinquina con i voti e le belle recensioni. È stato importante per noi capire anche le preferenze di una generazione che conoscevamo poco e ci ha piacevolmente sorpresi”.
È il presidente della giuria tecnica, Amedeo Di Maio, a svelare i cinque titoli finalisti, in rigoroso ordine alfabetico: Roberto Andò, con “Il bambino nascosto” (La Nave di Teseo), Marta Barone, con “Città sommersa” (Bompiani), Jonathan Bazzi, con “Febbre” (Fandango), Giorgio Fontana, con “Prima di noi” (Sellerio), Igiaba Scego, con “La linea del colore” (Bompiani).
Di Andò parla Emanuele Trevi, scrittore, critico letterario, giurato del Premio. “Un autore molto interessante che oggi potremmo definire multimediale, perché sa esprimersi attraverso molti mezzi, ma che come scrittore ha un padrino illustre, Leonardo Sciascia.” “Il bambino nascosto – conclude Trevi – è quasi un giallo che si basa sull’assunto che la vita può cambiare da un momento all’altro, come cambia la vita del professore di pianoforte quando un bambino irrompe letteralmente in casa sua.”
Sempre Trevi, su Marta Barone e Città sommersa: “Un esordio sorprendente (nel mondo della letteratura per adulti – precisa Trevi – perché la Barone si cimenta da tempo nella nobile arte della scrittura di libri per bambini). Un libro autobiografico che parte dall’esperienza dolorosissima di venire a contatto con la verità sul padre scomparso attraverso dei documenti e da qui arriva a parlare del rapporto tra un padre e una figlia, con la scrittura che cerca di riparare a una mancanza, a una ferita originaria”.
A parlare del terzo autore in gara, Jonathan Bazzi, e di “Febbre” è, invece Valerio Magrelli, poeta, scrittore e giurato del Premio. “Febbre è un libro che parla di riscatto: dalla provenienza (la periferia milanese, quella Rozzano che diventa sarcasticamente Rozzangeles), dalla balbuzie, dalla malattia (l’Aids, che causa quella febbre che non vuole andare via), da una identità sessuale incerta, fluida, dalla predestinazione. E il riscatto, arriva proprio con l’amore per la scrittura, la letteratura. Il linguaggio nervoso, lacerato, scattante– spiega Magrelli – è una delle caratteristiche di questo romanzo di (de) formazione, che ne svela tutta la modernità, anzi la contemporaneità”.
Su Giorgio Fontana, torna Emanuele Trevi. “Prima di noi è un libro sul quale il comitato dei lettori e la giuria tecnica hanno trovato una convergenza. E questo dipende dal fatto che si tratta di un testo che ha un valore intrinseco che viene facilmente fuori con la lettura. Fontana – conclude Trevi – è un autore non ancora quarantenne che si è cimentato con un genere che di solito affrontano scrittori più maturi, con un risultato davvero sorprendente. La qualità della sua scrittura è ottima e questa saga familiare che si snoda in un secolo di storia italiana è la grande prova di maturità di uno scrittore eclettico.”
Conclude le presentazioni Magrelli con “La linea del colore” di Igiaba Scego che “chiude la trilogia della violenza coloniale di questa autrice afro-discendente e italianissima che si occupa di razzismo, colonialismo e integrazione da molti anni e con molto impegno. Un libro molto particolare, ricco di paratesti che arricchiscono il volume, come le stupefacenti foto delle fontane che adornano alcune piazze italiane e che sorprendentemente sono costituite da obelischi raffiguranti schiavi incatenati. È questa la linea del colore che attraversa il libro – conclude Magrelli – ed è questa la conclusione di un percorso che Scego termina con la risposta ad una domanda iniziale: “Gli italiani sono bianchi?”. No, risponde Scego attraverso la sua protagonista femminile, sono meticci, un miscuglio di geni e di etnie”.