Intellettuale poliedrico, direttore del Teatro Stabile di Napoli, scrittore, regista con collaborazioni straordinarie (da Fellini a Cimino a Scorsese) e amicizie a dir poco esclusive (su tutti, Leonardo Sciascia che lo introduce alla scrittura), Roberto Andò partecipa col suo “Il bambino nascosto” alla nona edizione del Premio Sila e, intanto, sta terminando di girare la versione cinematografica di questa storia coinvolgente.
Il professore Gabriele Santoro, colto, borghese, omosessuale, infelice abitante di un palazzo tipicamente napoletano (promiscuo, con i nobili che condividono il condomino con i camorristi) si è autorecluso in una casa e in una vita che gli danno l’illusione della tranquillità, la parvenza di un’esistenza: i libri, il pianoforte, le abitudini e qualche visita romantica gli bastano (o così crede) per andare avanti. Ciro, 10 anni, un padre camorrista, un errore colossale che lo pone ai margini della sua comunità e della sua stessa famiglia, irrompe nella (non)vita di Gabriele, si impone come ospite in casa del professore, un ospite indesiderato eppure impossibile da mettere alla porta. Il professore sa che la vita di Ciro è nelle sue mani, e capisce subito che lui e il bambino, così diversi, rappresentanti di due mondi in contrasto, con distanze che sembrano irriducibili, sono, in fondo e per un aspetto fondante della propria esistenza, uguali: sono due fuoriusciti, due corpi ormai estranei agli ambienti dai quali provengono, per scelta o per necessità, poco importa. Sono soli e (adesso) insieme ad affrontare un pezzo di strada. Inizia così una storia di amicizia straordinaria, che cambierà le vite di entrambi. “Un romanzo bello e commovente – ha affermato Gemma Cestari aprendo l’incontro – un romanzo sulla storia dei sentimenti che si incontrano nei luoghi più sorprendenti, sulla famiglia e sulla paternità. Ma anche un grandissimo libro su Napoli, una Napoli onirica, un po’ deforme, quasi mostruosa.”
“Un racconto non convenzionale sulla camorra”, lo ha definito, invece, Alfredo Cosenza, magistrato, chiamato a dialogare con l’autore.
Il modo di raccontare la camorra si è appiattito sulla modalità Gomorra, conviene lo scrittore siciliano, “Il libro di Saviano è stato un libro importante, ma ha creato uno stile narrativo che semplifica, generando nell’immaginario collettivo rappresentazioni lontane dalla realtà. Il crimine – ha continuato Andò – in realtà non fa altro che derubarci della nostra quotidianità. E a me interessava raccontare questo, del padre di Ciro che è schiacciato dalla legge criminale, tanto da pensare che non ci siano alternative al sacrificio di suo figlio per riparare a un torto.”
“Quanto ha pesato nella scrittura il taglio cinematografico del regista Andò? – ha chiesto poi Alfredo Cosenza – Possiamo immaginare che il libro sia già nato per diventare un film?”
“È evidente – ha risposto Andò – che per me la dimensione visiva entra nella scrittura, come per altri scrittori che non sono necessariamente anche registi. Ma in realtà il romanzo nasce proprio per la difficoltà a ridurre in immagini determinate cose: io scrivo quando so che l’aspetto visivo non può esaurire tutto quello che voglio raccontare. Allora mi affido alla parola.”
“Il film, invece, ti fa raggiungere in un altro modo il senso di questa storia. E poi – ha concluso il regista – ho intravisto la possibilità di un finale diverso, e non ho resistito.”